«Se non ti laverò i piedi, non avrai parte con me»
Vieni,
Signore Gesù,
deponi la veste che hai indossato per me.
Spogliati, per
rivestirci della tua misericordia.
Cingiti di un asciugatoio, per cingerci con
il tuo dono,
che è l'immortalità.
Metti l'acqua nel catino, e lavaci non
soltanto i piedi,
ma anche il capo; non solo i piedi del nostro corpo,
ma anche
quelli dell'anima.
Voglio deporre la nostra fragilità.
Quanto è grande questo
mistero!
Quasi fossi un servitore lavi i piedi ai tuoi servi,
e come Dio mandi
dal cielo la rugiada.
Voglio lavare anch'io i piedi ai miei fratelli,
voglio
osservare il comandamento del Signore.
Egli mi comandò di non aver vergogna,
di
non disdegnare di compiere quello che lui stesso
aveva fatto prima di me.
Chissà quanto tempo i discepoli avranno impegnato
per capire il vero significato di quel gesto. Forse ci saranno riusciti davvero solo dopo il tumulto della
passione, dopo la disperazione e l'abbandono seguiti alla morte del Messia, chiusi in quel cenacolo,
che li aveva visti prima riuniti nella gioia, poi nella paura.
In quella cena, la loro ultima cena pasquale,
Gesù donò loro la dimostrazione concreta di cosa vuol dire "amatevi". Lo fece in ginocchio, prima
ancora del grande passo, della piena e totale adesione al disegno del Padre, prima ancora di salire il
Calvario con il peso della nostra croce.
Quel chinarsi e cingersi il grembiule è ancora oggi il segno
più eloquente di cosa vuol dire essere cristiani. Oggi siamo chiamati a ripresentare con la nostra vita,
con le piccole azioni quotidiane, quel mirabile esempio di premura. In questi giorni di epidemia siamo
costretti "in casa", a stretto contatto con le persone a noi più care.
Come vivere con loro tutto questo?
Come dare speranza in un tempo di ansia e preoccupazione? Come sorridere degli errori e condividere
la fatica del lavoro quotidiano? Questo tempo sarà tempo benedetto, se saremo in grado di
inginocchiarci e ripartire, purificati, dalla stessa misura di Cristo... "Capite quello che ho fatto per
voi?".
«Il "Dio vicino" ci parla di umiltà. Non è un "grande Dio", no. È vicino. È di
casa. E questo lo vediamo in Gesù, Dio fatto uomo, vicino fino alla morte. Con i suoi
discepoli: li accompagna, insegna loro, li corregge con amore... Pensiamo, per esempio,
alla vicinanza di Gesù ai discepoli angosciati di Emmaus: erano angosciati, erano sconfitti
e Lui si avvicina lentamente, per far loro capire il messaggio di vita, di resurrezione (cfr
Lc 24,13-32). Il nostro Dio è vicino e chiede a noi di essere vicini, l'uno all'altro, di non
allontanarci tra noi. E in questo momento di crisi per la pandemia che stiamo vivendo,
questa vicinanza ci chiede di manifestarla di più, di farla vedere di più. Noi non possiamo,
forse, avvicinarci fisicamente per la paura del contagio, ma possiamo risvegliare in noi
un atteggiamento di vicinanza tra noi: con la preghiera, con l'aiuto, tanti modi di
vicinanza. E perché noi dobbiamo essere vicini l'uno all'altro? Perché il nostro Dio è
vicino, ha voluto accompagnarci nella vita. È il Dio della prossimità. Per questo, noi non
siamo persone isolate: siamo prossimi, perché l'eredità che abbiamo ricevuto dal Signore
è la prossimità, cioè il gesto della vicinanza.»
(Papa Francesco - Omelia del 18.03.20)
|