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feb 27 2007
Se questo è un uomo PDF Stampa E-mail
Scritto da Annalisa Di Mauro   
martedì 27 febbraio 2007
saddam

 

 

Sono ormai diverse settimane che si sente parlare della "Moratoria Universale della Pena di Morte", attraverso la quale si fa appello alle Nazioni Unite di velocizzare il processo di completa abolizione della pena capitale nel mondo. La battaglia, portata avanti da associazioni come "Amnesty International" e "Nessuno tocchi Caino", ha acquistato una visibilità maggiore negli ultimi mesi a causa dell'esecuzione dell'ex dittatore iracheno Saddam Hussein, avvenuta per impiccagione il 30 dicembre scorso.

 

Le reazioni che si sono avute dinanzi all'importante fatto di cronaca si possono distinguere essenzialmente in due tipi: una di giubilo ed un'altra di sgomento. Da ciò nasce più di una riflessione. La prima è che una questione, se affrontata in generale, a volte è seguita da una reazione diversa rispetto al caso in cui si renda più "concreta". Con ogni probabilità, la quasi totalità delle persone che si sono dichiarate a favore dell'esecuzione di Saddam, in altre occasioni si è ritenuta contraria al fatto di poter privare un uomo della propria vita. Ci sono casi in cui, però, ad un'ipotesi si sostituisce un fatto concreto, un nome, un volto, una persona di cui si conosce tutto: lati deboli e lati forti, il cui nome è intrecciato con la storia di tanti altri e, soprattutto, con interessi passati e presenti; il cui volto evoca notizie di abusi e ingiustizie inferte o subite; tutte cose che fanno di quella persona una vittima "reale", più presente che non solo un'idea: in quel momento, anche se crediamo nel valore della vita, nell'ingiustizia di un assassinio, ed escludiamo che si possa decidere volontariamente di uccidere qualcuno, ci ritroviamo invece a dire, magari solo nel nascosto di noi stessi, che siamo d'accordo e che quella persona merita quella pena. Cosa succede allora? Succede che, nonostante il rispetto assoluto per la vita che ci portiamo dentro, in alcune occasioni siamo disposti all'eccezione, la nostra parte meno razionale viene fuori e con essa le nostre paure, la rabbia, l'indignazione.

 

Facciamo un passo indietro, a prima che l'esecuzione avvenisse. "Cosa è giusto fare?" è una domanda che, forse, ci siamo posti in molti. Sicuramente ai nostri occhi Saddam non è uno stinco di santo, ma la questione è che comunque è un uomo. È vero: si è reso colpevole di numerosi crimini che fanno rabbrividire, ma resta il dubbio se la pena di morte sia l'unica strada percorribile di fronte a questo caso. È vero anche che si avverte la paura che in un modo, forse solo ipotetico e al saddam2.jpgmomento inimmaginabile, egli possa fuggire e in qualche modo possa tornare a far del male; la rabbia di quelle famiglie cui ha causato un dolore troppo grande per essere dimenticato. Ma c'è anche l'amara certezza che questo non farà tornare in vita chi oramai non c'è più, e la magra consolazione che l'esecuzione capitale potrà, forse, colmare la sete di vendetta di chi è indignato per la sua condotta. E poi, anche lui ha una famiglia, delle persone che lo amano, per quanto a noi possa sembrare assurdo amare un uomo che si è mostrato crudele e violento. Ai nostri occhi.

Può darsi che, nello stesso inimmaginabile modo in cui potrebbe scappare dalla sua prigionia, egli possa capire l'errore che ha commesso nei confronti dell'umanità e il suo animo possa cambiare. La pena di morte esclude tutto ciò. Inoltre, le critiche all'uso della pena capitale fanno leva anche sul fatto che questo tipo di condanna non offre alcun apporto concreto agli sforzi della società nella lotta contro il crimine violento ed è sprovvista di effetto deterrente, perché, dicono le statistiche, nelle nazioni in cui è in uso non è ridotta la tendenza a delinquere. Oltre al fatto che, per la sua irreversibilità, potrebbe essere inflitta a degli innocenti come la cronaca, purtroppo, ci attesta.

 

 

In realtà, la pena capitale è abolita de jure (per legge) o de facto (per prassi) contro pena di morteda più della metà dei paesi nel mondo. Come mai non in tutti? Evidentemente in questi paesi esiste un "codice etico" differente. Che potrebbe avere anch'esso le sue buone ragioni, proprio perché ogni popolo ha il suo codice di comportamento, ha il suo ethos, in base al quale premia o punisce i singoli cittadini che meritano o demeritano. Ma può essere la perdita della vita il prezzo per vendicare la giustizia offesa? Siamo sicuri che là dove la pena capitale è in uso i giudici siano assolutamente imparziali, o non siano anch'essi collusi, magari in altri tipi di debolezza, magari solo psicologica, che condiziona il giudizio? Che tante persone, diventate coraggiose solo ora che il tiranno è caduto, e che chiedono a gran voce vendetta, non siano della stessa pasta? Che tanti potenti diventati illuminati solo ora non abbiano avuto nessuna parte, anche solo per omissione di azioni giuste, e siano guidati da sincero amore per il popolo? L'amara constatazione che i rapporti pubblici di tanti potenti sono intrisi di menzogna e ipocrisia, ci porta a sospendere il giudizio e a propendere in favore della vita.

 

Con Aristotele abbiamo imparato che la decisione, qualunque essa sia, deve essere ponderata, equilibrata e fedele ad un giudizio di verità e di retta ragione. Come distinguere, allora, ciò che è giusto da ciò che non lo è? Occorre ricercare su tutto, non fermarsi e farsi bloccare dall'emozione che il fatto suscita. È necessario farsi guidare dalla saggezza propria e degli altri, tendere a scoprire la verità rispettando la dignità assoluta di ognuno e seguendo le proprie profonde convinzioni.

 

È fuori luogo seguire un ragionamento utilitaristico per cui adeguarsi alla strada che permette la maggiore utilità al maggior numero di persone: sarebbe un vero bene, quando una gran parte di persone ha parlato di errori di gestione di tutta la faccenda vista la conseguente ed inarrestabile ondata di terrorismo? Né è il caso di affidarsi all'opinione democraticamente prevalente perché questa potrebbe essersi formata non a partire dal vero e dal giusto ma solo dal risentimento e dall'odio e, come spesso accade, nel momento in cui gli interessi in gioco dovessero cambiare e una47475392_035664837d.jpg diversa maggioranza dovesse succedere all'altra, la certezza sulla condotta da tenere viene a vacillare. Con il rischio, tra l'altro nemmeno tanto nascosto, di un relativismo per cui non riconoscendo valori assoluti e cose buone o cattive di per sé, cioè indipendentemente dalle circostanze e dalle esigenze contingenti, ci si arrischierebbe ad emettere giudizi assoluti.

 

In conclusione, le considerazioni sono lungi dall'essere esaurite. Nel caso della pena di morte viene naturale pensare ad una violazione di un diritto al di sopra di ogni altro, quello di vivere, in quanto nessuno può rendersi giudice a tal punto da uccidere un altro essere umano. Se esiste una Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo ci sarà un perché. Se ci inorridisce l'idea che si possa volontariamente togliere la vita ad una persona, privarla del suo domani e di ciò che poteva diventare, ci sarà un motivo. La questione è identificare l'umanità di chi subisce la pena di morte e stabilire se mantiene la sua dignità di essere umano anche se si è macchiato di crimini orrendi.

 

 

 

 


Per saperne di più:

 

amnesty

nessuno tocchi caino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


L'articolo è pubblicato sul numero di Febbraio 2007 de "l'incontro"

copertina_febbraio2.jpg

 

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