Sono
ormai diverse settimane che si sente parlare della "Moratoria Universale della
Pena di Morte", attraverso la quale si fa appello alle Nazioni Unite di
velocizzare il processo di completa abolizione della pena capitale nel mondo.
La battaglia, portata avanti da associazioni come "Amnesty International" e
"Nessuno tocchi Caino", ha acquistato una visibilità maggiore negli ultimi mesi
a causa dell'esecuzione dell'ex dittatore iracheno Saddam Hussein, avvenuta per
impiccagione il 30 dicembre scorso.
Le
reazioni che si sono avute dinanzi all'importante fatto di cronaca si possono
distinguere essenzialmente in due tipi: una di giubilo ed un'altra di sgomento.
Da ciò nasce più di una riflessione. La prima è che una questione, se affrontata
in generale, a volte è seguita da una reazione diversa rispetto al caso in cui
si renda più "concreta". Con ogni probabilità, la quasi totalità delle persone
che si sono dichiarate a favore dell'esecuzione di Saddam, in altre occasioni
si è ritenuta contraria al fatto di poter privare un uomo della propria vita.
Ci sono casi in cui, però, ad un'ipotesi si sostituisce un fatto concreto, un
nome, un volto, una persona di cui si conosce tutto: lati deboli e lati forti,
il cui nome è intrecciato con la storia di tanti altri e, soprattutto, con
interessi passati e presenti; il cui volto evoca notizie di abusi e ingiustizie
inferte o subite; tutte cose che fanno di quella persona una
vittima "reale", più presente che non solo un'idea: in quel momento, anche se
crediamo nel valore della vita, nell'ingiustizia di un assassinio, ed
escludiamo che si possa decidere volontariamente di uccidere qualcuno, ci
ritroviamo invece a dire, magari solo nel nascosto di noi stessi, che siamo
d'accordo e che quella persona merita quella pena. Cosa succede allora? Succede
che, nonostante il rispetto assoluto per la vita che ci portiamo dentro, in
alcune occasioni siamo disposti all'eccezione, la nostra parte meno razionale
viene fuori e con essa le nostre paure, la rabbia, l'indignazione.
Facciamo
un passo indietro, a prima che l'esecuzione avvenisse. "Cosa è giusto fare?" è
una domanda che, forse, ci siamo posti in molti. Sicuramente ai nostri occhi
Saddam non è uno stinco di santo, ma la questione è che comunque è un uomo. È
vero: si è reso colpevole di numerosi crimini che fanno rabbrividire, ma resta
il dubbio se la pena di morte sia l'unica strada percorribile di fronte a
questo caso. È vero anche che si avverte la paura che in un modo, forse solo
ipotetico e al momento inimmaginabile, egli possa fuggire e in qualche modo
possa tornare a far del male; la rabbia di quelle famiglie cui ha causato un
dolore troppo grande per essere dimenticato. Ma c'è anche l'amara certezza che
questo non farà tornare in vita chi oramai non c'è più, e la magra consolazione
che l'esecuzione capitale potrà, forse, colmare la sete di vendetta di chi è
indignato per la sua condotta. E poi, anche lui ha una famiglia, delle persone
che lo amano, per quanto a noi possa sembrare assurdo amare un uomo che si è
mostrato crudele e violento. Ai nostri occhi.
Può darsi che, nello stesso
inimmaginabile modo in cui potrebbe scappare dalla sua prigionia, egli possa
capire l'errore che ha commesso nei confronti dell'umanità e il suo animo possa
cambiare. La pena di morte esclude tutto ciò. Inoltre, le critiche all'uso
della pena capitale fanno leva anche sul fatto che questo tipo di condanna non
offre alcun apporto concreto agli sforzi della società nella lotta contro il
crimine violento ed è sprovvista di effetto deterrente, perché, dicono le
statistiche, nelle nazioni in cui è in uso non è ridotta la tendenza a
delinquere. Oltre al fatto che, per la sua irreversibilità, potrebbe essere
inflitta a degli innocenti come la cronaca, purtroppo, ci attesta.
In
realtà, la pena capitale è abolita de
jure (per legge) o de facto (per
prassi) da più della metà dei paesi nel mondo. Come mai non in tutti?
Evidentemente in questi paesi esiste un "codice etico" differente. Che potrebbe
avere anch'esso le sue buone ragioni, proprio perché ogni popolo ha il suo
codice di comportamento, ha il suo ethos,
in base al quale premia o punisce i singoli cittadini che meritano o
demeritano. Ma può essere la perdita della vita il prezzo per vendicare la
giustizia offesa? Siamo sicuri che là dove la pena capitale è in uso i giudici
siano assolutamente imparziali, o non siano anch'essi collusi, magari in altri
tipi di debolezza, magari solo psicologica, che condiziona il giudizio? Che
tante persone, diventate coraggiose solo ora che il tiranno è caduto, e che
chiedono a gran voce vendetta, non siano della stessa pasta? Che tanti potenti
diventati illuminati solo ora non abbiano avuto nessuna parte, anche solo per
omissione di azioni giuste, e siano guidati da sincero amore per il popolo?
L'amara constatazione che i rapporti pubblici di tanti potenti sono intrisi di
menzogna e ipocrisia, ci porta a sospendere il giudizio e a propendere in
favore della vita.
Con
Aristotele abbiamo imparato che la decisione, qualunque essa sia, deve essere
ponderata, equilibrata e fedele ad un giudizio di verità e di retta ragione.
Come distinguere, allora, ciò che è giusto da ciò che non lo è? Occorre
ricercare su tutto, non fermarsi e farsi bloccare dall'emozione che il fatto
suscita. È necessario farsi guidare dalla saggezza propria e degli altri,
tendere a scoprire la verità rispettando la dignità assoluta di ognuno e
seguendo le proprie profonde convinzioni.
È
fuori luogo seguire un ragionamento utilitaristico per cui adeguarsi alla
strada che permette la maggiore utilità al maggior numero di persone: sarebbe
un vero bene, quando una gran parte di persone ha parlato di errori di gestione
di tutta la faccenda vista la conseguente ed inarrestabile ondata di
terrorismo? Né è il caso di affidarsi all'opinione democraticamente prevalente
perché questa potrebbe essersi formata non a partire dal vero e dal giusto ma
solo dal risentimento e dall'odio e, come spesso accade, nel momento in cui gli
interessi in gioco dovessero cambiare e una diversa maggioranza dovesse succedere
all'altra, la certezza sulla condotta da tenere viene a vacillare. Con il
rischio, tra l'altro nemmeno tanto nascosto, di un relativismo per cui non
riconoscendo valori assoluti e cose buone o cattive di per sé, cioè
indipendentemente dalle circostanze e dalle esigenze contingenti, ci si
arrischierebbe ad emettere giudizi assoluti.
In
conclusione, le considerazioni sono lungi dall'essere esaurite. Nel caso della
pena di morte viene naturale pensare ad una violazione di un diritto al di
sopra di ogni altro, quello di vivere, in quanto nessuno può rendersi giudice a
tal punto da uccidere un altro essere umano. Se esiste una Dichiarazione
Universale dei diritti dell'Uomo ci sarà un perché. Se ci inorridisce l'idea
che si possa volontariamente togliere la vita ad una persona, privarla del suo
domani e di ciò che poteva diventare, ci sarà un motivo. La questione è
identificare l'umanità di chi subisce la pena di morte e stabilire se mantiene
la sua dignità di essere umano anche se si è macchiato di crimini orrendi.
Per saperne di più:
L'articolo è pubblicato sul numero di Febbraio 2007 de "l'incontro"
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